Giornalisti o influencer dell’informazione?
In molti Paesi occidentali si osserva una tendenza crescente: i giornalisti abbandonano il ruolo di narratori imparziali per diventare protagonisti del dibattito pubblico, assumendo posizioni da opinion leader.
Il risultato è un’informazione sempre meno neutrale, sempre più filtrata da ideologie e interessi personali.
In Italia, questa dinamica è evidente nei talk show, dove a discutere non sono esperti o testimoni, ma altri giornalisti. Si genera così un circuito autoreferenziale, che privilegia la visibilità individuale alla pluralità di voci.
La Francia non è da meno: programmi come C dans l’air o TPMP offrono visibilità quasi esclusiva a commentatori abituali. In Spagna, El Intermedio e Al Rojo Vivo seguono la stessa logica, mentre nel Regno Unito il giornalismo investigativo tende a cedere il passo al commento, con poche eccezioni, come alcune trasmissioni della BBC.
Negli Stati Uniti il fenomeno è ormai strutturale: reti come Fox News e MSNBC costruiscono le loro scalette intorno a narrative ideologiche, più interessate a confermare le convinzioni del pubblico che a metterle in discussione.
Questo modello, sotto diverse forme ma con meccanismi analoghi, riduce lo spazio democratico e indebolisce il senso critico collettivo.
Come osservava Noam Chomsky, la diversità di opinione viene spesso tollerata solo entro confini accettabili, creando un’illusione di pluralismo che maschera un controllo più profondo.
Un giornalismo sano dovrebbe invece offrire dati verificabili, porre domande scomode e dare voce a chi ha competenze o vive le conseguenze delle decisioni politiche.
Quando si perde questa funzione di mediazione, l’informazione cede al narcisismo e all’intrattenimento ideologico — in Italia come altrove.