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Il governo vuole smaltire più in fretta le nostre scorie nucleari

Durante il Consiglio dei ministri della scorsa settimana il governo ha approvato il commissariamento della Sogin, la società di stato che ha il compito di smantellare gli impianti nucleari e gestire i rifiuti radioattivi. Mercoledì 22 giugno, con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, il commissariamento è diventato operativo: entro il 22 luglio il governo dovrà nominare la persona che assumerà il ruolo di commissario a cui saranno dati poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria. Potrà, cioè, riorganizzare completamente la società.

Il commissariamento è stato deciso, come si legge nella premessa del decreto, «in considerazione della necessità e dell’urgenza di accelerare lo smantellamento degli impianti nucleari italiani»: una parte molto importante è l’individuazione del luogo adatto a costruire un unico grande deposito italiano di scorie nucleari. Il governo, in sostanza, vuole che Sogin raggiunga più in fretta lo scopo per cui è stata creata nel 1999.

Il piano iniziale, approvato nel 2001, prevedeva la messa in sicurezza di tutti i rifiuti nucleari entro il 2014 e lo smantellamento completo delle centrali entro il 2019. Nel corso degli ultimi vent’anni gli amministratori che si sono avvicendati alla guida di Sogin hanno via via ridefinito i tempi e i costi. Nel 2010 la scadenza per completare il decommissioning venne spostata al 2025, con una stima di 5,71 miliardi di euro per completare in tempo lo smantellamento. Nel 2017 la scadenza venne spostata ulteriormente al 2036 con un aumento dei costi a 7,25 miliardi di euro.

L’ultima proroga era stata decisa nel 2020 dall’attuale amministratore delegato, Emanuele Fontani, che ha previsto di raggiungere gli obiettivi sempre entro il 2036, ma con un aumento dei costi fino a 7,9 miliardi di euro. Il governo, attraverso il commissariamento, spera di avere tempi e costi più certi e un avanzamento delle attività più veloce rispetto agli ultimi anni.

Secondo gli ultimi dati diffusi da Sogin, nel 2021 lo smantellamento delle scorie (il cosiddetto decommissioning) ha generato attività per 118,3 milioni di euro. Gli amministratori hanno detto di aver raggiunto il miglior risultato di sempre nella gestione dei depositi attuali, senza però fare riferimento al processo per la scelta dell’area in cui costruire il nuovo deposito, che è ancora lungo e soprattutto in ritardo. La costruzione del nuovo deposito nazionale è essenziale per mettere in sicurezza le scorie e smantellare le vecchie centrali.

Nel nuovo deposito nazionale, infatti, saranno stoccati tutti i rifiuti nucleari italiani: in totale sono 95mila metri cubi, di cui 17mila metri cubi “a media e alta attività” e 78mila metri cubi “a molto bassa e bassa attività”. Le scorie non arrivano solo dalle ex centrali nucleari, ma sono anche scarti di tante altre attività come la medicina nucleare, dove vengono utilizzate sostanze radioattive a scopo diagnostico, terapeutico e di ricerca. I rifiuti radioattivi vengono prodotti anche dall’industria. Di questi 78mila metri cubi, 33mila sono già stati prodotti, mentre 45mila metri cubi verranno prodotti in futuro.

Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2021 era stata pubblicata la mappa delle 67 aree potenzialmente idonee ad ospitare il nuovo deposito. Se ne parlava da quasi vent’anni e la mappa era pronta dal 2015, ma fino a un anno e mezzo fa era sempre rimasta coperta da segreto. La mappa dei luoghi individuati da Sogin si chiama CNAPI: Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico.

Non tutte le aree sono uguali: alcune sono più idonee, altre meno. Quelle più idonee sono 12 e si trovano in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso, Carmagnola), Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure) e Viterbo (due aree a Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Tutte le altre aree – in Toscana, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna – sono ritenute idonee, ma con una valutazione inferiore rispetto alle prime dodici.

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Per trovare le aree idonee ad ospitare il nuovo deposito nazionale si è proceduto per esclusione. Sono stati incrociati i dati morfologici di tutta Italia per escludere i luoghi dove potrebbero esserci situazioni delicate come l’alta densità abitativa, il rischio sismico e idrogeologico, ma anche la presenza di siti Unesco o aree protette. Altri due criteri importanti sono l’altitudine, che deve essere sotto i 700 metri sul livello del mare, e l’esclusione di tutte le aree caratterizzate da versanti con pendenza superiore al 10%.

Lo scorso anno Sogin aveva promosso un lungo seminario in cui chiunque aveva potuto presentare osservazioni e documenti in merito ai luoghi individuati nella mappa di quelli potenzialmente idonei. Durante gli incontri del seminario nazionale, che si era tenuto online, erano intervenute moltissime persone per esprimere la loro contrarietà alla costruzione del deposito nazionale nella loro provincia.

Al termine del seminario nazionale, dopo aver raccolto i pareri e le osservazioni, Sogin aveva preparato una versione aggiornata della mappa, chiamata CNAI, la carta nazionale delle aree idonee e quindi non più “potenzialmente idonee”. La mappa aggiornata è stata inviata al ministero della Transizione ecologica il 15 marzo: come era accaduto per la CNAPI fino all’inizio del 2021, la mappa non è stata ancora pubblicata perché coperta da segreto. Sarà diffusa soltanto dopo l’autorizzazione del ministero e dell’ISIN, l’ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare.

Le tempistiche, già piuttosto lunghe per via dei ritardi accumulati negli ultimi anni, sono state ridefinite dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani durante un’audizione alla Camera dello scorso 6 aprile. «Secondo il cronoprogramma attuale è stata valutata come percorribile l’ipotesi di entrata in esercizio del deposito nel 2029 con individuazione del sito nel mese di dicembre 2023», ha detto Cingolani. Ma molto dipenderà da come i territori reagiranno alla pubblicazione della nuova mappa.

Sogin spera che qualche comune si dichiari disponibile a ospitare il deposito nazionale. Finora gli incentivi promessi – tra cui un fondo di compensazione da 15 milioni di euro – non sono stati sufficienti a suscitare l’interesse degli enti locali. «Ad oggi non sono state prese in considerazione le autocandidature perché l’iter previsto dalla normativa non lo prevede», ha precisato Cingolani. «Entro trenta giorni dall’approvazione della CNAI, la Sogin inviterà le Regioni e gli enti locali delle aree idonee alla localizzazione del parco tecnologico a comunicare, entro i sessanta giorni successivi, il loro interesse ad ospitare il Parco stesso avviando, nel contempo, le trattative bilaterali finalizzate al suo insediamento. In caso di assenza di manifestazioni d’interesse, la Sogin promuoverà trattative bilaterali con tutte le Regioni nel cui territorio ricadono le aree idonee».

Tra i benefici del deposito nazionale, Sogin ha stimato anche una ricaduta occupazionale di oltre 4.000 persone (di cui 2000 diretti fra interni ed esterni, 1.200 indiretti e mille di indotto) all’anno per i quattro anni di costruzione. Nella fase di esercizio, della durata di 40 anni, l’occupazione diretta è stimata mediamente in circa 700 addetti, fra interni ed esterni, con un indotto che può incrementare l’occupazione fino a circa mille persone. ​Insieme al deposito, inoltre, verrà realizzato anche un parco tecnologico con un centro di ricerca per studiare nuove tecniche di smantellamento delle centrali nucleari, gestione dei rifiuti radioattivi e salvaguardia ambientale.

Nel frattempo la gestione dei vecchi depositi sparsi nelle regioni italiane, finanziata con la bolletta elettrica, è piuttosto costosa. Secondo un report della CGIL, dal 2001 ad oggi sono stato pagati in bolletta 3,7 miliardi di euro, ma solo 700 milioni sono stati utilizzati per lo smantellamento dei vecchi impianti: 1,8 miliardi di euro sono stati spesi per la manutenzione degli attuali depositi temporanei e 1,2 miliardi per il trattamento del combustibile radioattivo in Francia e nel Regno Unito. Ogni anno, quindi, lo stato spende 60 milioni di euro per stoccare parte dei rifiuti nucleari all’estero. In totale, secondo l’ultimo piano di Sogin, lo smantellamento delle centrali costerà 7,9 miliardi di euro e finirà nel 2036.

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