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Invecchiamento, dal cane alla giraffa all’uomo: alla base c’è la stessa mutazione genetica

Più lunga è la durata della vita di una specie, più lento è l’accumulo di mutazioni genetiche nel suo Dna. La conferma di questo paradosso biologico, ipotizzato ma mai dimostrato, giunge da un robusto studio britannico pubblicato su Nature che aggiunge nuovi tasselli alla nostra comprensione dell’invecchiamento.

I ricercatori di Wellcome Sanger Institute e Società zoologica di Londra hanno confrontato il tasso di accumulo delle mutazioni in vari mammiferi, uomo compreso, scoprendo che, nonostante la grande variabilità nella durata della vita e nelle dimensioni corporee, gli animali concludono la loro esistenza con un numero simile di cambiamenti genetici.

Il rebus dell’invecchiamento

Da oltre settant’anni, infatti, la comunità scientifica si interroga sul ruolo delle mutazioni somatiche, che interessano cioè le cellule del corpo, nel processo di invecchiamento. La loro comparsa è un processo naturale, che avviene durante l’intera vita di un organismo: si calcola che le cellule umane ne accumulino tra le 20 e le 50 ogni anno.


Sebbene la maggioranza di queste mutazioni siano innocue, alcune possono compromettere il funzionamento della cellula – e dunque spiegare almeno in parte il processo di invecchiamento – oppure avviarla a un’evoluzione tumorale. “In altre parole, più lunga è la vita di un organismo, più alto è il numero di mutazioni che sarebbe lecito aspettarsi, incluse quelle dannose” riassume Maurizio Genuardi, professore di genetica medica dell’Università Cattolica a Roma e presidente della Società europea di genetica umana.

Un altro rebus tuttora senza risposta è riassunto dal paradosso formulato dallo statistico Richard Peto. “Poiché i tumori si sviluppano da singole cellule, le specie più grandi – e quindi costituite da più cellule – dovrebbero avere, a rigor di logica, un rischio molto più elevato di cancro. In realtà, è stato dimostrato che esso non dipende dalle dimensioni corporee: l’elefante ha un’incidenza di tumori ben più bassa di quella di animali più piccoli” riprende l’esperto.

La spiegazione attualmente più quotata sostiene che gli animali più grandi abbiano sviluppato delle strategie più efficaci per prevenire il cancro. Tuttavia, non è mai stato dimostrato che qualcuno di questi meccanismi comporta la riduzione dell’accumulo di cambiamenti genetici.

Lo studio

I ricercatori del Wellcome Sanger Institute hanno misurato i tassi di mutazione somatica in singole cellule staminali di 16 specie di mammifero, coprendo un ampio spettro di longevità e massa corporea: dall’uomo al topo passando per il leone, la giraffa, la tigre, la talpa glabra e altri ancora. Le sequenze dell’intero genoma sono state ricavate da 208 cripte intestinali prelevate da 48 individui.

Firme genetiche dei processi mutazionali hanno fornito informazioni sui processi in atto, permettendo ai ricercatori di dimostrare che le mutazioni somatiche si accumulavano linearmente nel tempo e che erano causate da meccanismi simili in tutte le specie considerate, compreso l’uomo.

I cambiamenti genetici identificati nello studio suggeriscono che le malattie della vecchiaia sono simili in un’ampia gamma di mammiferi, indipendentemente dal fatto che essa inizi a sette mesi o a 70 anni.

La prova di un possibile ruolo giocato dalle mutazioni somatiche nell’invecchiamento è emersa dalla constatazione che il tasso di mutazione diminuiva all’aumentare della durata della vita di ciascuna specie. In media, una giraffa è 40 mila volte più grande di un topo e un essere umano vive 30 volte di più ma la differenza nel numero di mutazioni per cellula tra le tre specie, considerata la rispettiva longevità, è risultata limitata.

Le conclusioni

Secondo Alex Cagan, primo autore dello studio, “scoprire che la durata della vita è inversamente proporzionale al tasso di mutazioni somatiche suggerisce che esse possano svolgere un ruolo nell’invecchiamento. In futuro, sarebbe affascinante estendere questi studi a specie ancora più diverse, come gli insetti o le piante”.

Nonostante ciò, il paradosso di Peto rimane senza spiegazione: dopo aver considerato la durata della vita, gli autori hanno cercato, inutilmente, un’associazione tra il tasso di mutazione somatica e la massa corporea degli animali. “Sebbene l’ipotesi della regolazione del tasso di mutazione sia una soluzione elegante per spiegare l’incidenza dei tumori tra le diverse specie, l’evoluzione non sembra aver preso questa strada. È del tutto plausibile che, ogni volta che una specie evolve di dimensioni maggiori rispetto ai suoi antenati, la biologia escogiti una soluzione differente a questo problema” aggiunge il collega Adrián Báez Ortega.

Cosa fare per invecchiare bene

di

Emanuela Griglié


L’invecchiamento nell’uomo

Nonostante il risultato, sono gli stessi ricercatori britannici a sottolineare quanto ancora siamo lontani dalla comprensione dell’invecchiamento, sia negli animali che nell’essere umano. “Il progressivo accumulo di mutazioni somatiche nel corso della vita è uno dei processi ritenuti alla base dell’invecchiamento: più volte si replica una cellula, maggiore è il numero di mutazioni che emergeranno.

Le modifiche del Dna possono alterare la funzionalità delle proteine che a loro volta possono indurre cambiamenti fisiologici nell’organismo” riprende Genuardi, ricordando tuttavia, che sono ancora pochi gli studi che associano l’accumulo di mutazioni somatiche all’età biologica nell’essere umano.

“Sappiamo però che l’invecchiamento dipende da un insieme di fattori. Tra questi vi sono le alterazioni epigenetiche, che possono cambiare il funzionamento del Dna e dunque l’attività dei geni, e l’accorciamento dei telomeri dei cromosomi: queste piccole porzioni di Dna, che proteggono l’estremità dei cromosomi, vengono ridotte ad ogni replicazione” conclude l’esperto.

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