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La crisi del grano e l’inerzia del Viminale dietro i numeri da record degli sbarchi

I numeri non mentono. E sono lo specchio della doppia emergenza migranti abbattutasi sul nostro paese. Da una parte i crescenti effetti collaterali della crisi del grano che sposta masse di disperati dall’Africa sub-sahariana alle coste del Mediterraneo. Dall’altra l’assenza di misure di contenimento da parte di un governo e di un Ministero dell’Interno incapace di garantire qualsiasi controllo sulle rotte del Mediterraneo e del Canale di Sicilia. Ma partiamo dai numeri offerti dallo stesso Viminale. I disperati sbarcati dal primo gennaio all’8 luglio di quest’anno sono 30mila 866, ovvero quasi quattro volte quelli di tutto il 2020. E quasi ottomila in più rispetto a tutto il 2021. Ma il dato più interessante riguarda il gruppone di 5mila e 33 bengalesi che guida la classifica degli sbarchi di quest’anno davanti a 4mila967 egiziani, 4mila308 tunisini e 3mila291 afghani. Il dato sui bengalesi, assieme a quelli delle altre nazionalità di testa, è lo specchio delle fallimentari politiche di contenimento (non) adottate dal ministro Luciana Lamorgese. Per capirlo basta una cartina geografica. Il Bangladesh si affaccia sull’Oceano Indiano e confina con India e Birmania. Dunque è evidente, ma anche risaputo, che quei 5mila e passa bengalesi non arrivano da noi né remando, né camminando sulle acque. Ci arrivano grazie ai voli charter che li scaricano in Libia dopo aver fatto scalo in Turchia o a Dubai. Più o meno quel che successe mesi fa quando la Polonia si ritrovo invasa dai migranti sbarcati per via aerea in Bielorussia. In quel caso Varsavia oltre a sbarrare le frontiere alzò la voce con Bruxelles esigendo misure esemplari nei confronti degli stati complici e delle compagnie aeree coinvolte nei traghettamenti. Esattamente quel che ci si aspetterebbe dal ministro Lamorgese. Ma al Viminale non è chiaro se prevalgano l’indifferenza, l’incapacità di farsi ascoltare o entrambe. I dati su egiziani e tunisini fanno propendere per la terza ipotesi. Quei dati segnalano l’irrilevanza di un Belpaese che dopo aver rinunciato al ruolo di potenza di riferimento a Tripoli, non riesce ad esercitare la minima influenza né su Tunisi, né su sul Cairo. Gli oltre tremila sbarchi di afghani la dicono lunga invece sull’inefficacia (o sull’inesistenza) dei corridoi umanitari promessi dalla Farnesina all’indomani della caduta di Kabul per garantire vie di fughe dignitose alle vittime della barbarie talebana. E poi c’è la questione Erdogan. Qualche giorno fa il presidente del Consiglio Mario Draghi, alla ricerca di gas in grado di sostituire quello russo, è sceso a più miti consigli con un presidente turco liquidato in precedenza come un «dittatore». Ma quello sarebbe il meno. Il peggio è che proprio Erdogan ci ha scippato il ruolo di potenza di riferimento in Libia togliendoci qualsiasi capacità di controllo su Tripoli e, indirettamente, sulle milizie coinvolte nel traffico di uomini. Un problemino non da poco. Soprattutto se le motovedette fornite dall’Italia alla Guardia Costiera di Tripoli e marinai e ufficiali libici addestrati dal nostro paese inizieranno non fare più i nostri interessi, ma quelli di un Erdogan assai abile e spregiudicato nell’usare i migranti come arma di ricatto. Invece un’Italia già «al limite» sul fronte dell’accoglienza, come ammetteva lo stesso Draghi nei colloqui di Ankara, sembra essersi messa mani e piedi nelle mani del «dittatore» garantendogli la possibilità di ricattarci alternativamente con l’arma dei migranti o con quella del gas. Anche perché, non dimentichiamolo, un tempo il 13 per cento del nostro consumo di gas era garantito dal gasdotto che partiva dalle coste della Libia e approdava a Gela. Oggi, invece, nella Tripoli turco-centrica l’Italia ha difficoltà persino a garantirsi la metà di quella fornitura. Figuriamoci nel fermare i migranti.

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