“La stupidità è infinitamente più affascinante dell’intelligenza, infinitamente più profonda.
L’intelligenza ha dei limiti, la stupidità no”.
(Claude Chabrol)
Chabrol suggerisce che la stupidità sia affascinante, non per le sue qualità positive, ma per la sua imprevedibilità.
L’intelligenza, per quanto brillante, tende a seguire regole, logiche, schemi.
La stupidità no: è anarchica, capricciosa, priva di misura.
E proprio per questo può sorprendere, disorientare, perfino attrarre chi osserva il mondo come un teatro dell’assurdo.
Dire che la stupidità è più profonda dell’intelligenza è una provocazione volutamente ambigua.
Ma in un certo senso ha un fondo di verità: l’intelligenza si costruisce, si coltiva, si affina; la stupidità, invece, sembra sorgere da una sorgente inesauribile, immune a ogni forma di istruzione, esperienza o buon senso.
È un abisso in cui si può sempre scendere più giù.
L’intelligenza sa quando fermarsi, riconosce il ridicolo, contempla il dubbio. La stupidità no: non si conosce, non si interroga, e proprio per questo non ha limiti.
È capace di superare ostacoli che l’intelligenza non oserebbe nemmeno affrontare – spesso con effetti disastrosi, ma pur sempre clamorosi.
Chabrol non celebra la stupidità, la descrive come una forza della natura. Il suo fascino è tragico, non edificante. È il fascino della rovina che si ripete, dell’errore che si ostina, della gaffe che diventa sistema.
Come regista, Chabrol ha spesso messo in scena questo contrasto: l’apparente normalità borghese che crolla sotto il peso delle sue piccole follie quotidiane.
In sintesi:
questa frase è un invito a diffidare dell’idea che l’intelligenza basti a spiegare il mondo.
Per capire davvero l’essere umano, Chabrol sembra dire, bisogna esplorare anche il lato oscuro dell’irrazionale — dove la stupidità, illimitata e potente, regna sovrana.
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