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Leggere il presente con gli occhi di un visionario medievale: Ibn Khaldūn e i cicli dell’impero

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ʿAbd al-Raḥmān Ibn Khaldūn (Tunisi, 1332 – Il Cairo, 1406), una delle menti più lucide del mondo euro-mediterraneo medievale, offrì una critica penetrante del declino della civiltà islamica. Considerato da molti studiosi un precursore di Hobbes, Vico e Marx, è ampiamente riconosciuto come il più influente filosofo e sociologo del suo tempo.

Al centro del pensiero di Ibn Khaldūn vi è un’intuizione fondamentale: gli imperi non sono strutture permanenti, ma sistemi viventi che seguono un ciclo riconoscibile — ascendono grazie all’unità e al vigore, e decadono per effetto della compiacenza e della corruzione.

Descrisse questo processo in cinque fasi generazionali:

  1. Conquista e solidarietà – Una nuova forza emerge, sostenuta dall’intensa coesione (ʿasabiyyah) di gruppi tribali o familiari.
  2. Consolidamento autoritario – L’élite al potere rafforza il proprio controllo, ma la solidarietà iniziale si affievolisce.
  3. Prosperità ed espansione – Crescono la ricchezza e la stabilità, ma l’unità interna si indebolisce.
  4. Compiacimento e decadenza – Le élite diventano distaccate, godendo dei frutti della forza passata senza rinnovarne le basi.
  5. Crollo – In assenza di coesione e legittimità, lo Stato si sfalda, lasciando spazio a un nuovo ciclo.

Ciò che distingue Ibn Khaldūn è il suo rifiuto di moralizzare la storia.

Molto prima dell’affermarsi della storiografia moderna, egli analizzava gli eventi come il risultato di cause intrecciate — economiche, culturali e psicologiche. La sua insistenza sull’osservazione empirica e sull’analisi strutturale anticipa i metodi degli illuministi e delle scienze sociali contemporanee.

Il suo concetto di solidarietà di gruppo prefigura le moderne teorie sul capitale sociale e sull’identità collettiva.

In un’epoca segnata dalla polarizzazione e dalla fragilità delle istituzioni, il suo monito è ancora attuale: le civiltà non crollano solo per attacchi esterni, ma per la lenta erosione della loro coesione interna e del loro scopo condiviso.

Parallelismi intellettuali

Nel corso della storia, pensatori di culture diverse hanno rispecchiato la visione ciclica e strutturale del cambiamento proposta da Ibn Khaldūn.

Thomas Hobbes sosteneva la necessità di un’autorità forte per evitare il caos — un’idea in linea con la convinzione di Ibn Khaldūn che solo una leadership centrale e coesa può garantire la stabilità.

Giambattista Vico elaborò un modello ciclico dello sviluppo storico, fondato sulla trasformazione culturale anziché sul progresso lineare.

Karl Marx, pur focalizzandosi sul conflitto di classe, interpretava anch’egli la storia come il prodotto di forze economiche profonde.

Edward Gibbon attribuì il declino di Roma alla decadenza morale e istituzionale, filtrata attraverso lo scetticismo illuminista. Come Ibn Khaldūn, concentrò la sua attenzione sul deterioramento interno più che sulle cause esterne.

Arnold J. Toynbee analizzò i cicli vitali di ventisei civiltà, evidenziando come la causa principale del loro crollo risiedesse nella rottura interna — in particolare, nel fallimento delle élite nell’adattarsi ai cambiamenti.

Conclusione

Da Tunisi a Londra, dalla Muqaddima al Capitale, emerge una consapevolezza condivisa: la storia si muove secondo schemi.

Ibn Khaldūn fu tra i primi a riconoscerli e a tracciarli con chiarezza analitica.

La sua opera resta un testo fondamentale non solo del pensiero islamico, ma del patrimonio intellettuale universale — una guida per comprendere come le società nascono, fioriscono e cadono.

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