“Nihil est tam inaequale quam aequalitas ipsa.”
*Nulla è tanto ineguale quanto l’uguaglianza stessa.)
(Plinio il Vecchio)
L’uguaglianza si è imposta come la grande parola d’ordine dell’età moderna, il vessillo simbolico sotto cui si combattono battaglie civili, sociali, politiche.
Essa incarna un’aspirazione nobile — una società più giusta, più inclusiva, più umana.
Ma nel passaggio da principio a ideologia, da criterio operativo a dogma inviolabile, l’uguaglianza ha assunto i tratti di un vero e proprio mito contemporaneo.
Un mito, per definizione, non si sottopone a verifica. Non si discute: si celebra. Non si problematizza: si ripete, si invoca, si difende.
Così l’uguaglianza, oggi, è spesso più creduta che praticata, più proclamata che realizzata.
Si confonde con la giustizia, come se fossero sinonimi, quando invece rappresentano logiche radicalmente diverse.
L’uguaglianza, intesa in senso formale, implica trattare tutti allo stesso modo.
Ma la giustizia, nella sua accezione sostanziale, impone di trattare ciascuno secondo ciò che gli è proprio: meriti, bisogni, responsabilità, contesto.
La giustizia esige discernimento. L’uguaglianza tende all’uniformità. Una distribuzione equa non è mai perfettamente simmetrica: richiede misura, proporzione, e una visione complessa dell’umano.
Questo scarto fra uguaglianza e giustizia produce una serie di paradossi moderni.
Dare a tutti lo stesso in condizioni di partenza diseguali non genera equità, ma rischia di perpetuare — o addirittura amplificare — le disuguaglianze esistenti.
È l’illusione dell’equità apparente che prende il posto della giustizia reale.
L’eguaglianza formale, se applicata senza attenzione al contesto, finisce per generare nuove iniquità sotto le sembianze dell’equità.
Plinio il Vecchio, ben prima della nascita delle democrazie moderne, aveva già colto questo paradosso.
La sua frase — “nihil est tam inaequale quam aequalitas ipsa” — non è un cinismo, ma una constatazione profonda: trattare tutti allo stesso modo può significare ignorare le differenze fondamentali tra gli individui, e dunque perpetuare ingiustizie invisibili.
La modernità, nell’erigere l’uguaglianza a principio assoluto, rischia di smarrire il senso autentico della giustizia: quella che distingue, che riconosce l’asimmetria delle vite umane, e che si fonda non sulla semplificazione, ma sulla comprensione.
In nome dell’uniformità, si perde la complessità.
E così, quello che nasceva come un ideale emancipatore può trasformarsi — se non vigilato — in una nuova forma di conformismo morale.
Una religione laica, fatta di proclami e riti verbali, che più che correggere le ingiustizie, le copre sotto il velo rassicurante della parità apparente.
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