Da quando ho compiuto trent’anni, ho spesso detto — a metà tra una battuta e una confessione — “Morirò giovane”.
Era il tipo di frase che faceva calare il silenzio.
Alcuni ridevano con imbarazzo, altri cambiavano discorso, incerti se prenderla come umorismo nero o come una tristezza trattenuta.
La maggior parte la liquidava come un vezzo drammatico — una di quelle uscite da poeta in cerca d’effetto.
Ma io non stavo scherzando.
Non intendevo allora predire una morte precoce, né abbandonarmi al fatalismo. Era una dichiarazione d’intenti — un rifiuto ostinato di lasciare invecchiare l’anima, anche se il corpo, inevitabilmente, lo avrebbe fatto.
Adesso che ho 66 anni, continuo a dire “non vi preoccupate, morirò giovane”!
Adesso sembra una boutade, ma da sempre “Morire giovani” significa conservare una certa vitalità interiore: la curiosità, l’irriverenza, la capacità di stupirsi, la voglia di cambiare.
Significa opporsi alla lenta calcificazione che viene con la rassegnazione, l’amarezza o la routine.
Il mio piano è sempre stato questo:
morire giovane — il più tardi possibile.
Vivere a lungo, certo, ma senza spegnermi.
Invecchiare, sì, ma senza diventare vecchi.
Restare aperti, vigili, incompiuti.
No, non ho mai desiderato una vita breve — solo una vita che restasse intensa.
Invecchiare senza irrigidirsi, portare il peso degli anni senza lasciarsene schiacciare.
Esiste una giovinezza che nessun calendario può misurare: vive in come attraversiamo il mondo, in come pensiamo, in come restiamo aperti alla sorpresa.
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