L’ambizione ha un talento sottile: ci spinge a misurare il nostro valore in base agli altri, come se la vita fosse una classifica.
La vera grandezza non nasce dal primeggiare, bensì dal superare se stessi — giorno dopo giorno, errore dopo errore. Non si tratta di inseguire la perfezione, ma di accettare la propria imperfezione come punto di partenza.
Essere superiori a se stessi non è una gara, è un cammino: non verso la perfezione — che è sterile e distante — ma verso una versione più consapevole e più onesta di noi stessi.
Osservarsi con onestà, riconoscere paure e limiti, e scegliere di migliorare anche solo un dettaglio: una parola più gentile, un giudizio in meno, un piccolo atto di coraggio in più.
È una nobiltà che non si eredita, ma si costruisce.
Non ha pubblico né premi, non cerca riconoscimento.
Lascia solo la serenità di sapere che oggi siamo un po’ più lucidi, più giusti, più liberi di ieri.
E in fondo è proprio questo il discrimine: alcuni vivono per impressionare, altri per evolvere.
La sfida più nobile — e la più difficile — non è mai contro il mondo, ma contro il nostro passato.





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