La flessibilità aiuta a negoziare e crescere, ma a volte scivola in cedevolezza e, con essa, nella rinuncia a ciò che ci definisce.
La flessibilità è un mezzo, non un fine: è utile finché non tocca l’asse dei principi: verità, sicurezza, dignità, legalità; superata quella linea, piegarsi non è intelligenza, è abdicazione.
La reputazione, costruita in anni e persa in un minuto, vive su questo confine.
Anche l’ingegneria lo ricorda: ogni sistema ha un limite di snervamento; superato, non torna più com’era.
Così nelle organizzazioni: ci si adatta senza tradire l’essenziale; se cede l’essenziale, si deforma l’identità.
Quando la rigidità è virtù:
- Se il compromesso viola un valore non negoziabile,
- Se è in gioco la sicurezza,
- Se si minano regole uguali per tutti,
- Se la verità viene sacrificata a una narrazione comoda,
- Se un sì oggi genera dieci ingiustizie domani.
Rigidi nei principi, creativi nei metodi
La fermezza non è testardaggine: è dire “no” all’inaccettabile e “sì” a tutto ciò che è migliorabile.
Si può restare inflessibili sul “perché” e flessibili sul “come”: il fine resta integro, i mezzi si adattano.
Tre pratiche per una fermezza corretta:
- Chiarezza preventiva: dichiarare a sé e agli altri i confini non negoziabili.
- Coerenza consequenziale: accettare il costo del no, senza cercare scuse.
- Eleganza del rifiuto: difendere il principio con rispetto, non con aggressività.
Spezzarsi e non piegarsi è un paradosso solo all’apparenza: meglio perdere un affare adesso, che perdere il metro con cui si misurano tutti gli affari futuri!
La flessibilità apre strade; la fermezza dà direzione.
Se confliggono, la direzione salva il viaggio.




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