“Sceccu”: un asino con una storia regale
La parola siciliana “sceccu”, che significa “asino”, ha origini affascinanti e stratificate, intrecciando etimologia araba, trasformazioni culturali e racconti popolari.
Origine etimologica
L’etimologia di sceccu risale all’arabo šaykh (شيخ), che significa “anziano”, “saggio”, “autorevole”. In arabo, il šaykh era una figura di rispetto, spesso capo tribale o guida spirituale.
Quando gli Arabi giunsero in Sicilia (IX–XI secolo), molti termini del loro vocabolario entrarono nella lingua locale.
Šaykh subì un curioso processo di trasformazione semantica: da “anziano saggio” a “vecchio testardo”, fino ad assumere in chiave ironica il significato di “asino” — animale associato alla caparbietà, alla fatica e alla docilità.
Un passaggio tutt’altro che raro nei dialetti popolari, dove l’ironia collettiva plasma l’evoluzione del linguaggio.
Un simbolo ambivalente
Nella cultura siciliana, u sceccu non è solo una bestia da soma, ma un vero e proprio simbolo:
- negativamente, rappresenta l’ignoranza, la testardaggine, la lentezza di pensiero;
- positivamente, incarna la forza paziente, la resilienza, l’umiltà operosa.
Ancora oggi, in molte zone della Sicilia, sceccu è usato per indicare una persona cocciuta o un po’ ottusa, sempre con una sfumatura affettuosa o ironica.
Curiosamente, la stessa radice araba ha generato in italiano la parola sceicco, che però ha conservato il significato originario di “capo”.
La leggenda di Re Miramolino
Oltre all’etimologia storica, esiste una tradizione leggendaria, tramandata oralmente, che offre una spiegazione più folklorica dell’origine del termine.
Secondo una di queste storie, quando gli Arabi invasero la Sicilia, trovarono una popolazione ostile e diffidente.
Il sovrano arabo, Re Miramolino (nome attribuito in epoca medievale ai sultani, dal significato “capo dei credenti”), cercava un modo per mantenere l’ordine.
Sua figlia, la principessa Nevara, si era innamorata di un nobile siciliano e desiderava la pace fra i due popoli. Suggerì al padre di adottare un approccio più tollerante, permettendo ai Siciliani di coltivare la terra e commerciare liberamente.
Miramolino accettò, ma impose alcune restrizioni simboliche: niente armi, niente cavalli, niente campane delle chiese.
Limitazioni su armi e campane furono accettate: dopotutto, le armi erano facili da nascondere, ed in chiesa ci si poteva andare anche se le campane erano diventate mute.
Il popolo siciliano invece non prese affatto bene il divieto di montare i cavalli e per ritorsione fecero morire tutti quelli dell’isola, avvelenando gli abbeveratoi.
Gli Arabi tentarono di rifornire l’isola con nuovi cavalli dal Nord Africa, ma una tempesta fece naufragare tutte le navi tranne una… quella carica di asini.
Quindi, per un certo periodo di tempo gli ‘sceicchi’ furono costretti a cavalcare asini e diventarono oggetto di scherno popolare.
Re Miramolino impose allora a tutti coloro che vedessero passare un asino, fosse cavalcato o meno, di inchinarsi al suo cospetto, suscitando l’ulteriore scherno dei siciliani, che per questo motivo iniziarono a chiamare gli asini ‘scecchi’.
Nevara, indignata, convinse il padre ad abolire la legge — e con essa anche i divieti su armi e campane.
Da allora, narra la leggenda, cominciò una stagione di rispetto e convivenza tra Siciliani e Arabi.
