Il ragionamento di oggi si collega idealmente a quello di ieri sull’eternità del provvisorio.
Questa massima, di apparente semplicità quasi ingegneristica, racchiude in realtà una filosofia pragmatica, conservatrice e — talvolta — pericolosa.
Nella sua forma concisa invita alla cautela: se qualcosa funziona, anche imperfettamente, meglio non toccarlo.
Cambiare ciò che sembra reggere può innescare conseguenze impreviste, o compromettere equilibri che, pur precari, si dimostrano stabili.
Nella gestione aziendale, nella manutenzione tecnica, nella politica o nelle relazioni personali, questa frase è spesso evocata come principio di buon senso:
* Evita interventi superflui.
* Non creare problemi dove non ce ne sono.
* Non scambiare l’ansia di innovare con la necessità di cambiare.
Tuttavia, se applicato in modo meccanico, questo principio rischia di trasformarsi in ostacolo:
* Un sistema può non essere rotto, ma comunque superato.
* Una prassi può funzionare, ma solo perché ci si è adattati ai suoi limiti.
* Una relazione può reggere, ma a scapito della sincerità o del benessere.
La sottile linea tra prudenza e immobilismo è facile da oltrepassare.
“Se non è rotto, non lo riparare” può diventare una scusa comoda per evitare decisioni, per rifuggire la responsabilità di migliorare, per proteggersi dal rischio dell’ignoto.
E forse, oggi, servirebbe una variante più attuale:
“Solo perché non è rotto, non significa che funzioni davvero.”
In un mondo in cui spesso i problemi emergono dopo che qualcosa ha ceduto, la vera lungimiranza sta nel vedere oltre l’apparente stabilità.
“Se non è rotto, non lo riparare” è una lezione di cautela, ma non è una legge immutabile.
Talvolta, migliorare prima che qualcosa si rompa — o proprio perché ancora non si è rotto — è il segno di una vera visione.
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