Questa frase ribalta l’idea che la grandezza consista nella perfezione. La vera grandezza non è l’assenza di errori, ma la capacità di non lasciarsi abbattere.
Alla base ci sono due visioni del mondo opposte.
La prima considera la perfezione come un dono divino, concesso dalla grazia e non conquistato con l’impegno.
Nella teologia cristiana tradizionale, soprattutto in quella cattolica, il fallimento è visto come segno di lontananza morale; il perdono richiede mediazione.
Le tradizioni protestanti, pur affidando la responsabilità morale all’individuo, vedono anch’esse la perfezione come qualcosa di concesso, non costruito.
La seconda visione, invece, vede la grandezza come il frutto della perseveranza.
Il fallimento non è una colpa, ma una tappa del cammino. La misura della forza è rialzarsi ogni volta.
In questo orizzonte, la grandezza nasce non dall’assenza di ostacoli, ma dalla capacità di attraversarli.
Il fallimento ci mette alla prova: ci ridimensiona, ci svela, ci costringe a crescere. Chi lo evita rimane immobile. Chi lo affronta ne esce più saggio, più forte, più consapevole.
Questa verità attraversa le culture.
In Giappone si dice: “Cadi sette volte, rialzati otto.”
I santi non sono sempre stati puri: sono coloro che sono tornati ad esserlo.
E gli eroi, nei miti, si formano attraverso la prova.
In fondo, la grandezza non sta nel non cadere mai, ma nel non restare a terra. Non è l’assenza di ferite, ma la presenza del coraggio.

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