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“Grinta, talento e adrenalina a mille. Gli Azzurri di basket sono lo specchio di quel ‘paz’ del Poz”

Va beh, non stiamo qui ad elencare il suo palmarès, altrimenti faremmo notte. Basti ricordare che Dino Meneghin, 72 anni, portati con la grinta di una schiacciata a canestro dall’alto del suo 2.06 m, è il cestista più titolato d’Italia e d’Europa. Roba da Guinness dei primati. Non a caso se su Google digiti le quattro di «Dino», il primo nome a venire fuori è proprio quello di «Dino Meneghin»; ancor prima di «Dino Zoff».

Dino, ti fa piacere il «gemellaggio» Meneghin-Zoff?

«Certo. Zoff è una leggenda del calcio mondiale. Ad accomunarci, oltre ai trionfi sportivi, c’è anche una comune interpretazione etica e morale della nostra professione. Entrambi poi abbiamo avuto una carriera longeva che ci ha portato ad avere successo fin oltre i 40 anni».

Veniamo all’attualità, sicuramente stai seguendo gli Europei di basket. Hai visto la sfortunata partita Italia-Grecia di sabato sera? Cosa ne pensi?

«Ero al Forum. Spalti gremiti. Splendida atmosfera. C’è mancato poco che, negli ultimi secondi, compissimo l’impresa. Invece abbiamo perso 81 a 85».

Siamo rimasti sempre in svantaggio. Non è che eravamo un po’ «moscetti»?

«No. Avevamo dinanzi una squadra forte e quel totem di Antetokounmpo, numero uno al mondo».

Gianmarco Pozzecco ha provato, invano, a rinchiuderlo in una «gabbia».

«Antetokounmpo è immarcabile. Oltre a fare i suoi punti, è altruista e con una visione di gioco eccezionale. Imbrigliarlo in qualche modo è impresa ardua anche per una squadra talentuosa come la nostra».

Guidata da quel «paz» del Poz…

«Il Poz è uno spettacolo. Da allenatore è esattamente come era da giocatore. Una forza della natura. Adrenalina a mille, passione e bravura».

Ma un allenatore non dovrebbe essere più pacato, riflessivo?

«Il Poz ci arriverà col tempo, ne sono sicuro. Ma ora lui è questo: uno che in panchina soffre le pene dell’inferno. Lo dico scherzosamente, ma neanche tanto: se non si dà una calmata, la sua salute è a rischio».

Ma la carica, la rabbia, le lacrime, i «cazziatoni», gli abbracci sono tutte cose che piacciono ai suoi giocatori.

«Indubbiamente tra lui e ragazzi c’è più che feeling. C’è amore. Lo spirito di gruppo è altissimo».

Per strada ti chiedono ancora gli autografi?

«Sì, gaffe comprese…».

Racconta.

«Un giovane mi fa: Ma lei è il famigerato Meneghin?».

«Famigerato»?

«Forse voleva dire «famoso», almeno lo spero…».

Altro aneddoto.

«Un signore col figlio piccolo per mano mi ferma gentilmente e dice: Scusi signor Meneghin, lo farebbe un autografo per mio figlio che è un suo fan?. E io: Con piacere. E lui, rivolto al bimbo: Lo vedi? Questo è il grande Meneghin. E il piccolo: E chi è sto Meneghin?».

La tua maggiore soddisfazione in carriera?

«Aver portato in alto, grazie alla nazionale, il buon nome dell’Italia. Facendo sentire i nostri emigrati all’estero orgogliosi della Patria e del Tricolore».

In una bella intervista rilasciata a Paolo Giarrusso hai detto che nella tua «seconda vita giocherai nella NBA».

«Vero. Ma vorrei anche poter dedicare più tempo a mio figlio Andrea che, quando era bimbo, ho un po’ trascurato. Per fortuna c’era una mamma meravigliosa che lo ha cresciuto benissimo».

«Cresciuto» anche troppo, visto che è stato pure lui un campione. Buon sangue non mente.

«E sai quando l’ho capito?»

Quando?

«Nell’unica partita in cui ci siamo trovati in campo da avversari. Io ero sotto canestro. All’improvviso me lo sono sentito saltare sulle spalle, deciso a strapparmi la palla. Allora mi sono detto: Questo qui è uno tosto. Non guarda in faccia a nessuno. Neppure a suo padre».

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