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La storia di Elisa Pomarelli, strangolata da un amico che non voleva accettare un «no»

di Federico Ferrero

Massimo Sebastiani sapeva che lei era omosessuale, ma si era convinto di poterla «cambiare». Quando la ragazza capì e provò ad allentare i rapporti, la portò in un pollaio e la uccise. E si inventò che «voleva i miei soldi»

Non è successo che tre estati fa ma l’auspicio è che si possa stabilire un prima e un dopo la fine inaccettabile di Elisa Pomarelli. Un prima, nel quale una parte dell’informazione ha lavorato col paraocchi del pregiudizio e ritenuto di farsi bastare stralci di notizie per confezionare una storia travisata: quella di una «coppia scomparsa» e poi, a crimine rivelato, di un «gigante buono» che, «per troppo amore», aveva tolto la vita a una ragazza «che si era negata», ovviamente «colto da un raptus». E un dopo, in cui di quella versione addomesticata dei fatti si possa conservare solo la verità: che l’omicida aveva deciso, disgraziatamente, di strozzarla nel pollaio della sua cascina e poi di buttarla via come un rifiuto, in una boscaglia. Con la più retriva e disgustosa delle scusanti: o mia, o morta.

Identikit

Massimo Sebastiani aveva quasi vent’anni più di Elisa, la cui vita è durata ventotto anni. Abitava per conto suo in una casa di Campogrande di Carpaneto, in provincia di Piacenza. Un po’ operaio tornitore, un po’ contadino, talora spaccone ma innocuo, la gente del posto lo conosceva così. Un tizio grande e grosso dall’esistenza semplice. Frequentando la famiglia Pomarelli, si era invaghito di una delle due figlie di Maurizio, Elisa; con gli amici, ne parlava come della sua fidanzata. Ma non era vero: lei gli aveva spiegato chiaramente quali fossero i suoi gusti sessuali. Non c’era alcuna possibilità che provasse sentimenti diversi dall’affetto, Elisa.

Lei e Massimo passavano molto tempo insieme, quello sì. Condividevano passioni e interessi, passeggiate, alcuni lavori tipici di quelle zone rurali. Elisa aiutava il padre nella professione di mediatore finanziario ma non disdegnava il versante bucolico della sua vita incardinata nelle campagne piacentine, il fascino del trattore e della legna.

L’ossessione

Sebastiani, tuttavia, non si arrendeva al ruolo di fratellone confidente. Alle conoscenze più strette, consapevoli del fatto che Elisa fosse lesbica, lui rispondeva risoluto che sì, la situazione era effettivamente tale, ma da attribuirsi allo smarrimento tipico della sua età. Prima o poi, si sarebbe schiarita le idee e avrebbe ceduto alle sue profferte. Tanto era radicata la sua convinzione che ci aveva provato pure rivolgendosi a uno psicologo, al quale aveva chiesto cosa avrebbe potuto fare «perché lei cambiasse idea». A una delle sorelle di Elisa, Debora, Sebastiani aveva rivolto la stessa domanda. Quasi si trattasse di una patologia in attesa di cura. Il tarlo dell’ossessione, nel caso Pomarelli, ha lavorato sottotraccia. Né la famiglia di lei, né la cerchia affettiva di lui ebbero mai motivi di ritenere che quell’omaccione potesse rappresentare un pericolo per Elisa, anche perché la ragazza sembrava trarre soddisfazione da quel rapporto di amicizia intima.

L’ultimo pranzo

Il 25 agosto 2019 era un giorno come un altro per passare un po’ di tempo con Elisa, per Sebastiani. Un messaggio sul telefono al mattino presto, per informarla che stava arando il campo ma «a mezzogiorno sono da te». L’uomo passò a prenderla e la portò a pranzare in trattoria, dove i titolari non notarono alcunché di anomalo. Poi a casa sua, per farsi aiutare nel pollaio. Da quel momento in poi, di Elisa Pomarelli non si è più avuta notizia. Di Sebastiani sì: il benzinaio del posto lo vide – e la telecamera lo registrò – mentre riempiva il serbatoio e si lasciava andare alla più classica excusatio non petita: «Oggi volevo andare a fare un giro con la mia ragazza, ma lei ha cambiato idea e allora me ne torno a casa a fare qualche lavoro». L’unico lavoro da ultimare, invece, era l’occultamento del cadavere del suo amore impossibile, con la più bieca delle giustificazioni: siccome non posso appropriarmene, tanto vale ucciderla.

L’allarme

Quella stessa sera, da casa Pomarelli partì l’allarme destinato ai carabinieri. Sospettando il rapimento o l’omicidio, Sebastiani e la vittima vennero cercati con elicotteri, droni e cani molecolari mentre qualcuno raccontava un altro lembo di storia tossica: la fantavventura del Rambo dei boschi, un uomo capace di nutrirsi di bacche e cacciare cinghiali con armi fabbricate da sé, e quindi di resistere all’addiaccio a tempo indeterminato. Anche questa circostanza sarebbe poi stata smentita dagli inquirenti: per coprirsi la fuga, Sebastiani aveva individuato la casa delle vacanze della famiglia di una sua ex fidanzata, e di quella si serviva per trovare riparo durante la latitanza. Dopo tredici giorni fu il proprietario del casolare a vedere Sebastiani e a chiamare le forze dell’ordine. Catturato, confessò. Salvo tentare di costruirsi una sorta di schermo difensivo, una storia di sfruttamento economico – falso – che avrebbe spiegato la sua volontà omicida. Invece Elisa Pomarelli era morta perché, dopo tre anni di amicizia pressante, quel giorno aveva spiegato al suo assassino che non era più il caso di vedersi tanto spesso. Forse non le facevano più piacere le tante attenzioni che comprendeva bene a quale fine fossero orientate.

L’ingiustizia

Ha senso che la produzione originale Uccisa due volte – Il caso Pomarelli, in onda su Crime Investigation (canale 119 di Sky) e a disposizione su Sky on demand, si occupi della vicenda ora, nonostante il procedimento penale debba ancora esaurirsi giacché il processo di appello è partito il 6 luglio. Perché punta non tanto sulla sconsolante tragicità della storia di Elisa, quanto sull’immaturità di una società. Che ha previsto, nel sistema repressivo, aggravanti per il femminicidio ma a maglie larghe: tanto che il rapporto Pomarelli-Sebastiani, non essendo sentimentale se non univocamente, non è ricompreso nella lettera della legge. Il femminicidio richiede un rapporto di matrimonio, di convivenza o comunque un legame stabile.

I legali della famiglia hanno tentato di convincere l’accusa a contestare a Sebastiani i motivi futili e abietti, la premeditazione e la crudeltà. Ma il magistrato non ha ritenuto di sposare le loro tesi, limitandosi a riconoscere l’aggravante comune della minorata difesa – che non prevede l’ergastolo e ha permesso all’imputato di accedere al rito abbreviato, con uno sconto di pena tale da stabilire in primo grado una sentenza a vent’anni di reclusione. Movimenti di opinione come la Onlus Non una di meno hanno reagito al caso Pomarelli manifestando davanti ai tribunali e ricordando, con uno slogan non banale, «Non è malato ma figlio sano del patriarcato». Una risposta indignata alla richiesta di perizia psichiatrica sull’assassino, come se non si ammettesse la possibilità che un uomo sano di mente uccida una donna perché non riesce a ottenere ciò che desidera. Come se la società si incaricasse ancora di scovare alibi ai maschi che sopprimono femmine per pura volontà di dominio. Debora Pomarelli, la sorella, ha partecipato a una loro iniziativa nel tentativo di riscrivere il lessico di fatti criminali come quello che le ha rovinato la vita: non si chiama troppo amore ma è violenza, non è sentimento ma è possesso, non è raptus ma coscienza omicida.

Due destini

Con una beffa ulteriore: dopo certa stampa inizialmente indulgente col carnefice, mentre Sebastiani veniva condannato a una pena che la famiglia Pomarelli definisce irricevibile, in un’aula attigua del tribunale di Piacenza un marito si prendeva l’ergastolo per aver assassinato la moglie. Due vite spezzate dalla prevaricazione in maniera tanto simile, due pene tanto diverse.

9 luglio 2022 (modifica il 9 luglio 2022 | 16:52)

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