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La famiglia Borsellino: «La pista nera sulle stragi del ’92 è un altro depistaggio»

La strage di Via D’Amelio

Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso in Via D’Amelio all’attacco: «Indagare sulla procura diretta da Pietro Giammanco»

di Nino Amadore

Mafia, Fiammetta Borsellino: “C’è anche un’omertà istituzionale”

4′ di lettura

È in atto un altro depistaggio. Non lo dice così chiaramente Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore di Paolo morto nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, ma torna all’attacco di chi, dice, sposta l’attenzione per nascondere la verità. L’occasione è un seminario organizzato dal Dems il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo diretto da Costantino Visconti dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Trizzino, affiancato da Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato che ha illustrato i profili innovativi della causa decisa dal Tribunale di Palermo, ha alternato le considerazioni sulla causa ad altre di stretta attualità.

Report sotto accusa

Intanto sulla puntata di Report e la ricostruzione fatta da Paolo Mondani sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, esponente della destra eversiva, che sarebbe stato presente a Capaci per un sopralluogo qualche mese prima della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Una ricostruzione che, secondo Trizzino, serve a distrarre dalla verità insomma per depistare ancora una volta. Trizzino, che ha recentemente sostenuto a Caltanissetta la sua arringa al processo per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio attraverso le imbeccate a Vincenzo Scarantino: in quel processo sono imputati tre poliziotti. Il legale della famiglia Borsellino ha un’idea precisa: «È nelle indagini su mafia appalti che bisogna cercare la verità. qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi». Una ricostruzione che fa il paio con un’altra: «In quei 57 giorni di Via Crucis che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio Paolo Borsellino non sorride più. Lucia (la moglie e figlia del magistrato ndr) mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno. Ma quei due magistrati hanno parlato nel 2010 non subito dopo la strage».

La responsabilità della procura di Giammanco

Ma questo è solo l’antipasto di un discorso più ampio e complesso che l’avvocato fa davanti agli studenti di Scienze politiche: «È sul procuratore Giammanco che bisogna indagare altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura». Ecco il punto: «Si parla di responsabilità istituzionali ma perché i responsabili devono essere altri e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su Via D’Amelio?» si chiede Trizzino. Il racconto del calvario di Paolo Borsellino è disseminato di riferimenti ai suoi colleghi, al «covo di vipere» che il magistrato considerava la Procura guidata da Pietro Giammanco. Senza mezzi termini Trizzino chiama in causa l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, autore poi dell’inchiesta sui Sistemi criminali che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92 ma anche i magistrati Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Cose non nuove, per la verità, ma questa volta l’avvocato va dritto al punto: «Alla fine chi è ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato, chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato». Ma c’è di più in questo ragionamento articolato e senza peli sulla lingua: «In questi 30 anni mi sono fatto un’idea – dice Trizzino –: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come accaduto. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro». Per coprire chi? Trizzino non lo dice ma «Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito» afferma. E poi l’avvocato si chiede: «Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di Via D’Amelio e si preferisce parlare d’altro?».

Il diritto alla verità della famiglia Borsellino

E infine Trizzino chiude: «C’è bisogno di disinteresse di chi cerca quersta verità. La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti – dice –. Quando ho letto che Nino Di Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio ndr), posso ipotizzare che Di Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto.  Vi assicuro che se qualcuno mi dimostra che Stefano Delle Chiaie era lì, me lo deve dimostrare con il metodo Falcone, Io sarò il primo a chiedere scusa. In trent’anni si è guardato ovunque: sono stati messi sotto accusa i carabinieri, politici, polizia. Tutte le istituzioni. L’unica istituzione che non è stata attenzionata nonostante Paolo Borsellino dica: saranno i miei colleghi ed altri. Noi questo non lo accettiamo più. Vogliamo semplicemente che anche in un’ottica di ricostruzione storica ci sia qualcuno che vada a vedere cosa è successo dentro quella procura. Perché c’è questa sovraesposizione mediatica sempre degli stessi soggetti? Qual è il vero motivo? Perché? Servono giovani che vadano a vedere le carte, in maniera asettica, senza conflitti di interesse per trovare la verità».

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